mercoledì 18 agosto 2010

Il caso del Valore allo sbaraglio

Immaginiamo per un momento che i "valori" non siano qualcosa di sancito da una entità superiore, divina, o anche da una morale equiparata al divino, avvolta in un'aura di assolutezza e di mistero. Immaginiamo che questo tuttavia non significhi, neppure, che "i valori non esistano": immaginiamo che non siano, anche se non sono assoluti e divini, un qualcosa di per ciò stesso inventato senza fondamento, come una storia raccontata da un imbroglione, ma che siano qualcosa di vero, di effettivo, di operante.
E' possibile immaginare questo? Un mondo di "valori" demisticizzati, ma non per questo ridotti ad un nulla, e neppure ad un calcolo razionale spiegabile con una formula economicistica?

Credo che sia possibile. Immagineremo perciò, per esempio, che "valore" sia qualcosa di riconosciuto da un gruppo significativamente aggregato di persone, un gruppo di rilevanza sufficiente perché i membri che se ne riconoscono parte possano immaginare ragionevolmente che quei valori siano incontestati e condivisi unanimemente da tutti coloro che fanno parte del gruppo, che siano ritenuti "la norma" per una collettività che per il "loro" mondo possa assimilarsi al "tutti" - pur nella consapevolezza che di fatto esistano molte persone che pensano ed agiscono diversamente, eppure tale consapevolezza non sia rilevante per destituire quei valori di fondamento. Se, per esempio, da bambini ci è stato insegnato in famiglia che ci si lava sempre le mani prima di mettersi a tavola, e che non è permesso presentarsi a tavola senza averlo fatto, è concepibile che noi da bambini ubbidienti capissimo benissimo che forse molte persone si sarebbero messe a tavola senza lavarsi le mani, e che queste persone potevano essere anche biasimevoli per qualche motivo, ma ci saremmo stupiti molto se ci fossimo accorti che questo potesse essere normale per uno "dei nostri", un fratellino, un cugino, uno zio, un amico di famiglia... Il valore "solo mani lavate a tavola" era una cosa riconosciuta come vera e vincolante, non come una regola accidentale.
Ma in che modo si può stabilire un valore? C'è qualcosa che richiama quello che negli studi giuridici si indica come una "consuetudine", con la differenza che il termine consuetudine si impiega in questo senso come termine strettamente giuridico, mente il termine "valore" se ne distingue perché ritenuto attinente alla sfera della morale. Il grado di vincolo normativo, tuttavia, e la formazione, intesa come storicamente intracciabile, vuoi come "innata", vuoi come tanto remota da averne perso memoria, sono analoghi.
Ma come si può spiegare che esistano sistemi di valori diversi? Come riconoscere un "valore" culturale?
Se ammettiamo che per la cogenza di un valore, così come per la valenza giuridica di una consuetudine, non possa darsi (o quantomeno possa non darsi) una tracciabilità storica, in altre parole ammettiamo che non se ne possa tracciare una genealogia, non se ne possa ricostruire un procedimento di formazione, allora pretendere di ripercorrere la storia di formazione di un valore o un complesso di valori non pare essere molto utile al fine di individuare quali siano i valori di una cultura determinata, nè tantomeno al fine di stabilire se, tra complessi di valori che appaiano contrastanti, ve ne sia uno che debba prevalere legittimamente su un altro.
In altre parole, mi sto riferendo all'ipotesi che gruppi che si identifichino come appartenenti a culture disomogenee riscontrino un conflitto tra i rispettivi valori inerenti ad un particolare aspetto della vita associata: se i due gruppi per qualche motivo si trovano a coesistere in uno spazio comune, e i due complessi di valori sono discordi al punto di non poter coesistere (per esempio perché secondo uno si devono lavare sempre le mani con acqua prima di mettersi a tavola, mentre per l'altro per esempio usare l'acqua appena prima di mettersi a tavola sia disdicevole e sia invece dovuto cospargersi le mani di sabbia prima di toccare cibo), come si potrà individuare se un sistema di valori debba prevalere, e quale? E' legittimo pretendere di affermare che, per esempio, uno dei due sistemi di valori sia quello corretto, mentre l'altro sia sbagliato, e debba essere uniformato al primo?
Abbiamo detto che non ha senso in un caso come questo rifarsi ad una sorta di genealogia o di storia della formazione dei rispettivi valori.
In effetti, se ci si domanda se un valore sia effettivamente tale, se costituisca una norma morale che viene ritenuta tale da un gruppo di persone, non ha molto senso cercare di elaborare test logici più o meno raffinati, elaborati od eleganti. La constatazione di una valida norma morale è nella constatazione "di fatto" di un comportamento socialmente significativo. E' in un certo senso in re ipsa. Non è dimostrabile, ma tutt'al più mostrabile. Si può dire che se ci si chiede se una norma morale sia effettivamente esistente, probabilmente è perché esiste. Se più norme morali appaiono in conflitto, e non pare ragionevolmente individuabile un motivo di imbarazzo che sia di fatto estraneo alla sfera morale (per esempio un problema di interessi economici, di minacce materiali, di rapporti di forza etc.), ma semplicemente in entrambi i gruppi le persone che ci tengono a comportarsi "come si deve", senza secondi fini di rilievo, enunciano norme tra loro insanabilmente contrastanti, allora esistono due confliggenti sistemi morali - entrambi veri, legittimi e ugualmente fondati e cogenti rispettivamente per ciascuno dei gruppi.

Come è possibile?

Forse, per esempio, perché diverse sono state determinate condizioni in cui quelle culture si sono sviluppate e quelle norme hanno trovato applicazione...
Ma non avevamo detto di lasciar fuori i tentativi di una genealogia dei valori?
Ebbene, avevamo detto che una genealogia dei valori è irrilevante ai fini di determinare se un valore sia tale o no, di "riconoscere", individuare, un sistema di valori. Quello che però stiamo facendo ora è ipotizzare, una volta che un valore sia stato riconosciuto come tale, per esempio perché osservato nel conflitto effettivo con un altro valore, che siano state determinate condizioni materiali, culturali, storiche a contribuire al delinearsi di quella forma di valore.
Nell'esempio già immaginato di come comportarsi prima di mettersi a tavola, forse chi dice che è buona cosa lavarsi le mani con acqua lo dice perché le mani devono essere pulite, l'acqua è normalmente disponibile ed usata per la pulizia, e le mani sono di solito poco pulite perché intente in attività quali lavoro o gioco a contatto con sostanze che sporcano. L'altro gruppo, per cui non è assolutamente cosa buona lavarsi con acqua, mentre è cosa buona impiastrarsi di sabbia, può darsi che sia abituato ad abitare in zone in cui l'acqua scarseggia, le poche fonti di liquidi sono lorde e ridotte a pantano, e magari le mani sono sempre pulite prima di mettersi a tavola, perché per esempio i pasti si consumano in locali prima di accedere ai quali ci si deterge abitualmente con una pezza di stoffa pulita, per poi applicare una polvere di sabbia o una farina che protegge le mani dall'unto dei cibi. L'acqua, di fatto, in una simile situazione sporcherebbe anziché garantire igiene.
Ovviamente, se non parliamo di regole pratiche, ma di norme morali, si deve immaginare che si tratti di accorgimenti entrati in un automatismo, per cui è moralmente ripugnante sedere a tavola senza aver passato le mani sotto l'acqua, in un caso, e avendole vicersa bagnate, nell'altro caso. Chi lo fa, insegnandolo ai più giovani, e indicando come biasimevole un comportamento contrario, potrebbe forse spiegare, riflettendo o riferendosi a racconti tradizionali, perchè lo faccia, ma più facilmente alla domanda "perché si fa" potrebbe rispondere che si fa così perché si fa così, punto e basta.
Se provo ora ad immedesimarmi in una morale sociale quale, per esempio, quella dell'etica del lavoro... Lavorare, fare il proprio dovere, rispettare i patti, gli orari, le regole, i colleghi, i capi... A che cosa penso? Penso ad un mondo che per quanto possa occasionalmente apparirci un po' strano, comunque capiamo benissimo, accettiamo sostanzialmente con le sue regole del gioco. Riconosciamo che l'interesse per denaro e potere economico o politico-economico appare esasperato - che il perseguimento del profitto, incentrato su un sistematico accaparramento di risorse, ha del patologico - eppure molto raramente o mai ce ne sottraiamo, e comunque i nostri comportamenti prevalenti paiono tendere a perpetuare il gioco anziché a scoraggiarlo.

Possiamo scrivere contro colonizzazione, colonialismi e neocolonialismi, anche in buona fede, e contro l'esasperazione della vita degli "affari", del "business", dell'interesse "economico" (http://andimabe.blogspot.com/2010/06/prima-del-calcio-dinizio.html) e tuttavia ci rendiamo conto di continuare ad esserne parte, e forse nel momento stesso in cui scriviamo contro.
"i personaggi son sempre gli stessi: europei assetati di risorse e ricchezze che invadono terre nuove, noncuranti delle popolazioni native, che vengono governate, schiavizzare, spesso sterminate"
"Parte della nostra ricchezza quotidiana, dei servizi, del progresso, dei benefici, è macchiata di sangue ma non lo sappiamo o preferiamo ignorarlo, dimenticare, coinvolti nella giostra veloce degli impegni importantissimi" http://andimabe.blogspot.com/2010/07/congo-in-limbo.html
Ma se le logiche sociali, culturali, comportamentali etc. della società a cui sentiamo di appartenere in prevalenza sono di questo tipo, se giochiamo questa parte, perché ci è permesso conservarle? Perché, di fatto, siamo in grado di conservarle? La nostra logica prevale perché ha qualche punto di forza, è "migliore" in qualche senso? E non dovrebbe essere smascherabile, opponibile, controbilanciabile? Non dovrebbe implodere, cedere... o essere "copiata", farci perdere il vantaggio?

Non lo so.

Però immaginiamo che si tratti di un gioco di logiche che fanno capo a sistemi di valori diversi. Immaginiamo, per esempio, che la logica che identifichiamo come "nostra", "occidentale", abbia come proprio, tra altri, un assunto del tipo "occorre combattere per ottenere più risorse di sostentamento possibile, è valoroso chi se le assicura con ogni mezzo di cui possa disporre, e occorre combattere per conservare ogni vantaggio ottenuto". Occorre combattere, raccogliere, conservare. Occorre ampliare il campo di raccolta e mantenere basso il numero di coloro che siano ammessi a disporre delle risorse.

Immaginiamo una logica di un altro genere, identificante un diverso gruppo sociale. Una logica, per esempio, di tipo "occorre combattere per assicurarsi la sopravvivenza, i mezzi di sostentamento sono abbondanti e inesauribili, ce n'è per quanti si voglia purché si sia disposti a spostarsi o a combattere se necessario per conquistarseli; anche se i mezzi di sostentamento sono abbondanti, esistono minacce alla sopravvivenza che riguardano le nostre famiglie, le nostre donne, i bambini: è valoroso chi sa difendere da un nemico o da un pericolo il proprio gruppo. Occorre combattere, inseguire e respingere, vigilare. Occorre viaggiare leggeri, conoscere il proprio territorio, stare vicino a chi proteggiamo.

La differenza che pongo tra queste due ottiche è quella tra una mentalità secondo cui le risorse materiali sono abbondanti e ricche, da una parte, e, dall'altra, una secondo cui le risorse materiali sono scarse e povere.

Ecco qual è l'immagine a cui voglio arrivare.

Se un gruppo della mentalità che combatte per accaparrarsi risorse, spostandosi alla ricerca, meritevole, di nuove terre per assicurare beni al proprio gruppo, incontra un gruppo che combatte per difendersi da aggressioni corporali, e che ha un'idea di assoluta abbondanza delle risorse, il secondo gruppo non vedrà nessuno svantaggio nel cedere risorse al primo, e non vedrà nell'atteggiamento di questo nessun atto di minaccia o di violenza; non vedrà nulla da cui difendersi e nulla contro cui combattere. Per contro, il primo gruppo ben volentieri comincerà con l'accaparrarsi quello che gli viene ceduto e coglierà nel disinteresse del secondo gruppo per le proprie risorse un segno indubbio di debolezza, mollezza, ingenuità e cedevolezza. Prima di poter capire che per la prima volta dovrà lottare per conservare le proprie risorse, il secondo gruppo se ne troverà privato. A quel punto, è troppo tardi.

Ma le logiche utilitaristiche in base alle quali il gruppo oppressore ha subissato l'altro non appartengono a quest'ultimo: questo non può difendersi perché l'oggetto dell'aggressione che subisce gli è estraneo. E' colto di sorpresa: il suo corredo per la sopravvivenza è rozzo e inadeguato, insufficiente, perché non sapeva come va il resto del mondo, tranquillo com'era nella sua terra dell'abbondanza.

Per il primo gruppo, depredare colui che non è conscio della ricchezza che possiede, e se ne disinteressa, significa soltanto dare il giusto valore ad un bene dall'altro sottovalutato. Per il secondo gruppo, è incomprensibile che il primo si affanni per togliergli tutte le risorse: perché mai qualcuno dovrebbe volere più di quello che è in grado di utilizzare? Perché poche centinaia di uomini dovrebbero essere una minaccia per le risorse?

Il gioco è fatto - e se ci lamentiamo di aver assunto il ruolo dei cattivi, il problema, adesso, è nostro.