lunedì 25 ottobre 2010

Bazzicando per il web, tra nuove rotte e vecchi amici

Ciao! Ecco qualche novità dal sito, dai link ai lavori di Ugo Volli (comunicazione, semiotica e dintorni, da vedere) ai convegni europei: aria d'autunno sempre più frizzante, e le nuove scoperte per le letture delle lunghe serate non mancano. 

Nella sezione filosofia la pagina è sempre più costellata di suggerimenti: da oggi trovi i collegamenti ai lavori di Ugo Volli - dalla pagina indicata si possono leggere molti lavori, si rischia di non saper scegliere, ma intanto ne segnalo uno, l'interessantissimo articolo su Internet e Spazio - imperdibile per gli internauti e per "navigare informati" tra spazi e geografie che non ci sono tanto familiari, per quanto li frequentiamo.


Per buttare lo sguardo in Europa, perché non dare un'occhiata all'Istituto Finlandese di Cultura? Roberto Mastroianni (informazioni sul suo sito) sarà in quella sede questa settimana (27 ottobre) per presentare Fondements de la sémiotique existentielle di Eero Tarasti.
Tra le belle sorprese per la nuova stagione, come farsi mancare il nuovo libro di Leo Babauta? Per chi ancora non l'avesse visto: Focus - ovvero, come salvare l'attenzione nell'era della distrazione. Per ora, solo in versione originale - ma... chissà, ormai Leo B. è tradottissimo, non resta che avere un po' di pazienza. Il libro è in doppia formula: una versione ridotta, che si può leggere gratuitamente, e una formula completa di contenuti multimediali e testi integrali acquistabile e visionabile dal sito ufficiale - le informazioni più complete direttamente dalle news di ZenHabits, nel post dedicato.   
Argomenti abbastanza filosofici... Troppo?  Ma no, dài: la stagione incentiva la riflessione! Tanto vale approfittarne, magari mettendosi a meditare e leggere al calduccio, le mani a scaldare intorno a una tazza di té... A presto!

mercoledì 13 ottobre 2010

Filosofia del diritto? Appunti per una significazione del concetto di "giuridico"

Il concetto di “giuridico” in una filosofia del diritto può richiedere qualche precisazione. 
Che cosa si intende per una filosofia specificamente qualificata come “del diritto”? 
Se vi si volessero ravvisare i requisiti di una filosofia “applicata”, nel senso di una teorizzazione applicabile ad uno specifico oggetto “diritto”, occorre notare innanzitutto che l'approccio filosofico invita ad escludere una concezione ingenua della “applicazione” come qualcosa che comporti la possibilità che un pensiero come una sorta di apparato teorico predisposto possa essere pacificamente utilizzato in senso meramente strumentale. 
Ciò che sembra chiedersi, invece, ad una filosofia, ad un pensiero teoretico, nella “applicazione” (tecnica, etica, giuridica, morale, politica, economica...), è la capacità di individuare il “pensiero”, il “pensare”, che essa esprime, nell'ambito specifico dell'esercizio di una determinata pratica, in un “fare”, un “agire”.
Non è, questa, una caratteristica peculiare del “diritto”: si può avere occasione di osservare, per esempio, come la pratica della ricerca medica o biologica incontri la stessa esigenza di cercare il supporto di un “pensare” nel “facere” della propria quotidiana opera.
Questo discorso – come una “teoria generale” di una scienza pratica, per esempio una “teoria generale del diritto” - è piuttosto ingannevole e forse ingenuo quando fa mostra di porsi direttamente una domanda del tipo “che cosa è x”; se si mantenga l'esempio del “diritto”, la domanda posta nei termini “che cos'è il diritto”, “che cos'è le legge”, “che cos'è la giustizia” etc. appare fatua in un intento che paia quello di selezionare un'etichetta per qualificare positivamente “x” (diritto, giustizia, verità...), quando la difficoltà della domanda è, piuttosto, nel “che cosa”, “quid”. 
Nel discorso del pensiero rivolto alla pratica di un “fare”, il “quid” che dovrebbe definire l'oggetto è solo illusoriamente un presupposto – in altre parole: non è possibile che una teoria fornisca una “verità” assoluta prioritariamente data sulla quale fondare la legittimazione di una pratica. 
Così, come quando si chiede allo scienziato “perché fa ciò che fa”, quando si chiede al ricercatore o al tecnico di laboratorio perché organizza in un determinato procedimento la mostrazione di un esperimento scientifico, la risposta è che quella mostrazione è così organizzata perché tale organizzazione si adegua ad un'idea ordinatrice che è data altrimenti, stabilita da qualcun altro o qualcos'altro. L'”ipotesi” si mostra come ciò che imprime l'esperimento e si mostra “nell'esperimento” - ma né l'esperimento né i mezzi che lo realizzano permettono di selezionare la formulazione dell'ipotesi
E così pure, in un processo decisionale orientato alla pronuncia di una sentenza una serie di elementi di prova vengono organizzati ad articolare un ragionamento decisorio e una motivazione che sorregge la decisione, ma il contenuto del possibile esito decisorio si vuole rigorosamente determinato per legge, secondo diritto formalizzato: è la formalizzazione giuridica nella legge a dover formulare l'ipotesi che “presiede a” ed orienta nel ragionamento l'intero impianto decisorio.
La rappresentazione di una ipotesi come formulazione che presiede all'organizzazione di un ragionamento si può tra l'altro rintracciare anche nelle linee guida ben note che propongono la lettura di una norma come un enunciato ipotetico, nella consueta forma “se x allora y”, o, quale equivalente, “a x segue y”. 
Si intuisce a prima vista come in una simile relazione il problema di riconoscere le condizioni che permettano di individuare il primo termine presieda alla possibilità di determinare il secondo; ciò comporta come aspetto particolarmente delicato che la relazione tra tali termini sia irriducibile a ciascuno di essi individualmente: pretendere che la conoscenza di uno renda pacifica la conoscenza dell'altro significa o che nulla di “sconosciuto” entrerebbe in gioco nell'operazione cognitiva, oppure che qualcosa che non si riduce a nessuno dei singoli termini concerne tale relazione. 
 
Nell'approccio del ragionamento del pensiero teoretico orientato alla pratica il “quid” del “ciò che si fa” non si cerca di enunciare positivamente, direttamente, ma quasi si scompone sui due versanti del “come si fa (ciò che si fa)” e del “perché si fa (ciò che si fa)”. Il mito scientifico-tecnico, di dominare un oggetto di sapere nel saperlo riprodurre, replicare, nell'individuarne il “come si fa”, mostra come un “che cosa” sia sempre presupposto nella pratica – ma come quel “cosa” per definizione sfugga.

La pratica mostra necessariamente l'aspetto di quel “fine” che persegue nell'ipotesi; ha bisogno di porla come presupposta; la evoca inoltre a titolo di giustificazione, spiegazione. Ma la pratica, lungi dall'azzardarsi ad enunciare positivamente la propria ipotesi, affida ad una sorta di “altra entità” tale compito.
La considerazione che uno “scopo” è imposto ed implicato nel “fare” di una attività evidenzia il più rilevante profilo della problematizzazione di un rapporto mezzi-fini.
Si affaccia inoltre, evidentemente, un problema di responsabilità: agisco attraverso i mezzi, oppure in qualche misura posso sostenere che siano i mezzi stessi di cui dispongo a condizionare il mio agire? Occorre indagare la possibilità di una risposta sotto questo aspetto alla tesi della “questione della tecnica” heideggeriana, in particolare per quanto riguarda la determinazione che si opererebbe nel “linguaggio”


sabato 9 ottobre 2010

Hai idea di che cosa significhi rivoluzione?

Cambiare significa che nulla sarà più come prima. 
Non puoi cambiare qualcosa immaginando che tutto resti com'è.
Non puoi entrare nella categoria di quelli che consideri "ricchi" e continuare a percepire un sussidio per il disagio economico. 
Non puoi fare il libero professionista e pretendere di difendere la classe che chiami "il proletariato". 
Non puoi diventare una taglia 40 e continuare a indossare i tuoi vestiti 44. E probabilmente non puoi nemmeno conservare la simpatia delle amiche con cui condividi abbuffate e sensi di colpa. 
Non puoi trovare una fidanzata fantastica e continuare a lamentarti dicendo che le donne sono tutte odiose. 
Non puoi essere libero e indipendente e continuare a fare la vittima che inveisce contro le oppressioni. 
Non puoi sconfiggere tutti i nemici e continuare a prestare servizio come guerriero: se è tutto qui quello che sai fare, sarai, tutt'al più, un reduce. 
O magari puoi: e però lo sai, che non ha senso. 
E allora, che cosa ha senso fare, quando desideri un cambiamento? 
Puoi provare a chiederti, per prima cosa, "è questo quello che voglio? E' proprio questo? E lo so, che cosa comporta? E' credibile, plausibile, quello che mi immagino?". "Non voglio essere un lavoratore dipendente, non voglio che un altro mi dica che cosa fare, voglio decidere solo io". Ti stai solo lagnando, oppure sai che cosa stai dicendo, e lo dici sul serio? 
Stai dicendo, davvero, che vuoi inventarti un'attività, e un modo per renderla utile ed interessante per altre persone, e che vuoi guadagnare in modo discontinuo, a seconda dei successi, magari in una volta sola quanto prima avresti guadagnato in sei mesi - e poi più niente magari per altri sei mesi?
Che sei disposto a scindere il guadagno dalle unità di tempo, ed ancorarlo al valore effettivo di quello che fai? Che sei disposto a far fronte in prima persona alla mancanza di ispirazione, alla svogliatezza, ai cali di rendimento, tutto senza stipendio fisso o ammortizzatori sociali?
Se è questo che vuoi, o qualcosa del genere, può darsi che una libera professione o un'impresa facciano al caso tuo. Ma se non è così, stai solo parlando di passare da una scusa per lamentarti ad un'altra - e cioè non vuoi quello che dici, vuoi solo lagnarti. 
Lagnarsi non è male: puoi farlo. Puoi dire che ti serve uno sfogo, che vuoi dare voce ad un malessere e una rabbia che ti covano dentro, puoi dire che devi buttare fuori tutta una serie di impressioni negative, prima di poter pensare "a cuore libero". 
Questo va bene. Ma non chiamare "desideri" quelle che sono invece delle invettive di sfogo. Non chiamarle "ragionamenti" o "idee". Non pretendere che chi ti dà ascolto "capisca", perché quello che chiedi è che qualcuno ti stia vicino, ti consoli, o provi compassione (autentica com-passione, non pietismo) e non c'è niente da "capire".

mercoledì 6 ottobre 2010

Essere senza tempo: il nuovo libro di Diego Fusaro


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Esce oggi il nuovo libro di Diego Fusaro: Essere senza tempo, edito da Bompiani. 

Strizza l'occhio naturalmente a Heidegger, dal titolo (echi di Essere e Tempo), ma il tempo di cui parla promette di non essere riservato a presunti adepti della filosofia metafisica estrema.

L'Autore, come noto, si è cimentato e si cimenta assiduamente con il pensiero di Karl Marx (marxiano, non marxista, opportuna la precisazione ricorrente nei suoi interventi) ed è facile aspettarsi che sia in grado di impegnarsi nella riflessione astratta senza per questo perdere aderenza con il significato dell'esperienza quotidiana che del "tempo" possiamo fare personalmente. 

L'indice dell'opera, su Filosofico.net