mercoledì 13 ottobre 2010

Filosofia del diritto? Appunti per una significazione del concetto di "giuridico"

Il concetto di “giuridico” in una filosofia del diritto può richiedere qualche precisazione. 
Che cosa si intende per una filosofia specificamente qualificata come “del diritto”? 
Se vi si volessero ravvisare i requisiti di una filosofia “applicata”, nel senso di una teorizzazione applicabile ad uno specifico oggetto “diritto”, occorre notare innanzitutto che l'approccio filosofico invita ad escludere una concezione ingenua della “applicazione” come qualcosa che comporti la possibilità che un pensiero come una sorta di apparato teorico predisposto possa essere pacificamente utilizzato in senso meramente strumentale. 
Ciò che sembra chiedersi, invece, ad una filosofia, ad un pensiero teoretico, nella “applicazione” (tecnica, etica, giuridica, morale, politica, economica...), è la capacità di individuare il “pensiero”, il “pensare”, che essa esprime, nell'ambito specifico dell'esercizio di una determinata pratica, in un “fare”, un “agire”.
Non è, questa, una caratteristica peculiare del “diritto”: si può avere occasione di osservare, per esempio, come la pratica della ricerca medica o biologica incontri la stessa esigenza di cercare il supporto di un “pensare” nel “facere” della propria quotidiana opera.
Questo discorso – come una “teoria generale” di una scienza pratica, per esempio una “teoria generale del diritto” - è piuttosto ingannevole e forse ingenuo quando fa mostra di porsi direttamente una domanda del tipo “che cosa è x”; se si mantenga l'esempio del “diritto”, la domanda posta nei termini “che cos'è il diritto”, “che cos'è le legge”, “che cos'è la giustizia” etc. appare fatua in un intento che paia quello di selezionare un'etichetta per qualificare positivamente “x” (diritto, giustizia, verità...), quando la difficoltà della domanda è, piuttosto, nel “che cosa”, “quid”. 
Nel discorso del pensiero rivolto alla pratica di un “fare”, il “quid” che dovrebbe definire l'oggetto è solo illusoriamente un presupposto – in altre parole: non è possibile che una teoria fornisca una “verità” assoluta prioritariamente data sulla quale fondare la legittimazione di una pratica. 
Così, come quando si chiede allo scienziato “perché fa ciò che fa”, quando si chiede al ricercatore o al tecnico di laboratorio perché organizza in un determinato procedimento la mostrazione di un esperimento scientifico, la risposta è che quella mostrazione è così organizzata perché tale organizzazione si adegua ad un'idea ordinatrice che è data altrimenti, stabilita da qualcun altro o qualcos'altro. L'”ipotesi” si mostra come ciò che imprime l'esperimento e si mostra “nell'esperimento” - ma né l'esperimento né i mezzi che lo realizzano permettono di selezionare la formulazione dell'ipotesi
E così pure, in un processo decisionale orientato alla pronuncia di una sentenza una serie di elementi di prova vengono organizzati ad articolare un ragionamento decisorio e una motivazione che sorregge la decisione, ma il contenuto del possibile esito decisorio si vuole rigorosamente determinato per legge, secondo diritto formalizzato: è la formalizzazione giuridica nella legge a dover formulare l'ipotesi che “presiede a” ed orienta nel ragionamento l'intero impianto decisorio.
La rappresentazione di una ipotesi come formulazione che presiede all'organizzazione di un ragionamento si può tra l'altro rintracciare anche nelle linee guida ben note che propongono la lettura di una norma come un enunciato ipotetico, nella consueta forma “se x allora y”, o, quale equivalente, “a x segue y”. 
Si intuisce a prima vista come in una simile relazione il problema di riconoscere le condizioni che permettano di individuare il primo termine presieda alla possibilità di determinare il secondo; ciò comporta come aspetto particolarmente delicato che la relazione tra tali termini sia irriducibile a ciascuno di essi individualmente: pretendere che la conoscenza di uno renda pacifica la conoscenza dell'altro significa o che nulla di “sconosciuto” entrerebbe in gioco nell'operazione cognitiva, oppure che qualcosa che non si riduce a nessuno dei singoli termini concerne tale relazione. 
 
Nell'approccio del ragionamento del pensiero teoretico orientato alla pratica il “quid” del “ciò che si fa” non si cerca di enunciare positivamente, direttamente, ma quasi si scompone sui due versanti del “come si fa (ciò che si fa)” e del “perché si fa (ciò che si fa)”. Il mito scientifico-tecnico, di dominare un oggetto di sapere nel saperlo riprodurre, replicare, nell'individuarne il “come si fa”, mostra come un “che cosa” sia sempre presupposto nella pratica – ma come quel “cosa” per definizione sfugga.

La pratica mostra necessariamente l'aspetto di quel “fine” che persegue nell'ipotesi; ha bisogno di porla come presupposta; la evoca inoltre a titolo di giustificazione, spiegazione. Ma la pratica, lungi dall'azzardarsi ad enunciare positivamente la propria ipotesi, affida ad una sorta di “altra entità” tale compito.
La considerazione che uno “scopo” è imposto ed implicato nel “fare” di una attività evidenzia il più rilevante profilo della problematizzazione di un rapporto mezzi-fini.
Si affaccia inoltre, evidentemente, un problema di responsabilità: agisco attraverso i mezzi, oppure in qualche misura posso sostenere che siano i mezzi stessi di cui dispongo a condizionare il mio agire? Occorre indagare la possibilità di una risposta sotto questo aspetto alla tesi della “questione della tecnica” heideggeriana, in particolare per quanto riguarda la determinazione che si opererebbe nel “linguaggio”


Nessun commento:

Posta un commento