venerdì 16 aprile 2010


Sei un fanatico della brutta copia?



E, corrispondentemente, della “bella copia”? Oppure fai le cose di getto, non importa come vengono, purché siano? E' l'interrogativo che mi ha suscitato questo articolo mentre ne facevo la traduzione italiana.
A scuola avevo imparato a scrivere i temi prima in “brutta copia”, su un foglio o quaderno a parte, per poi correggere, rielaborare, modificare se necessario, fino a ottenere di poter ricopiare il risultato in “bella copia”.

All'inizio aveva funzionato – Poi non più. Il lavoro in brutta copia si prendeva tutto il tempo a disposizione, finché al momento di consegnare non restava che depositare sulla cattedra un tristo plico di fogli scarabocchiati, nel migliore dei casi accompagnato dall'inizio della trascrizione in “bella”.

Proprio come per il primo compito in classe di latino, versione: per cui avevo strappato un generoso 6, quando l'otto o il nove sarebbero stati agevolmente alla mia portata! (leggi)

Eppure per tutto il mio corso di studi, e anche in famiglia, avevo sempre imparato che “se non fai bene una cosa, è meglio che tu non la faccia affatto”; “per fare tutto e male, piuttosto non fare niente”. Il punto è che queste sagge massime non tenevano conto di una attitudine generale, non solo mia ma di gran parte della mia famiglia, a raggiungere un perfezionismo estremo. Le capacità di analisi del singolo dettaglio sembravano quasi patologicamente fuori standard e quelle erano una massime deleterie: semplicemente, si risolvevano nel non poter portare a termine alcunché. Ad ogni tappa del lavoro, prima di poter passare alla seguente, una sequela veramente infinita di possibili correzioni, migliorie, revisioni, faceva sì che non si potesse mai giungere alla fase successiva. (Saper finire è importante: leggi una testimonianza di Ilaria Cardani).
A peggiorare la situazione, quella cura maniacale era additata quale esempio per gli altri, e passarono veramente molti anni prima che il suo lato “oscuro” venisse a galla.

Cominiciai dai temi in brutta. Man mano che il tema mi diventava meno ostile, che prendevo dimestichezza e sicurezza, cominciai a riflettere sulle modalità di svolgimento. Mi accorsi che non era tanto difficile riempire la pagina bianca, ma, piuttosto, come riempirla: con quali delle multiformi idee che la traccia mi suggeriva. Una volta preso il via, ad ogni paragrafo il tema stesso sembrava cambiare, non era più uno schema predefinito, ma un testo vivo, che si dipanava in sorprendenti tentacoli in ogni direzione infinitamente possibile.
Lavorando sull'organizzazione del tempo, avevo ottenuto di riuscire più o meno sempre a finire, o quasi, la trascrizione in bella copia. Qualche volta tagliavo un pezzo per riuscire a finire. Però mi accorsi di un'altra cosa: mentre copiavo, cambiavo. La “brutta” era già abbastanza ben scritta e anche ordinata; tuttavia, ad ogni frase che copiavo mi venivano in mente espressioni nuove che mi piacevano di più, sinonimi che preferivo, idee nuove. Andava bene: ma c'era qualcosa che poteva andare meglio. La brutta restava da una parte; la bella era qualcosa di nuovo.
Decisi recisamente che non me ne importava nulla delle indicazioni prudenti dei professori: bando alla brutta, il mio lavoro sarebbe venuto fuori in versione definitiva. Far due volte lo stesso lavoro non aveva senso; farne due diversi era una fatica esagerata; non restava che fare la bella subito.
Il mio rendimento, e il mio piacere nello scrivere, ebbe un vero e proprio salto di qualità!
Smisi di “compilare” il tema, e cominciai a creare; stili, tentativi, schemi e impostazioni differenti. Non era solo migliore; non era solo meno faticoso: era un divertimento. Potevo creare tre o quattro idee diverse di tema per volta; ce n'erano per me e ce n'erano da suggerire ai vicini di banco, idee per tutti.
Quando mi arrestai di fronte al nuovo tipo di esercizio, la versione di latino, più o meno avevo capito il problema, quindi per la volta dopo fu abbastanza agevole correre ai ripari.

Succede continuamente di incepparsi. Prima di uscire di casa, o facendo i bagagli per un viaggio, scrivendo un articolo, o scegliendo un regalo o organizzando una festa... Tutto. Allora si tratta di dire “falla finita”, “al diavolo!”, e portare a termine. “Se è così importante, lo perfezionerai dopo”. Ma, quando è finito, il particolare si armonizza nell'insieme, e a volte non c'è più niente da correggere.
Dopo alcuni anni che avevo cominciato a mettere a fuoco questo aspetto, e a lavorarci, come probabilmente farò per gran parte della vita, un amico mi riferì la massima che la sua saggia bisnonna era solita ripetere: “Il meglio è nemico del bene”.

Si può dire che un modello sia migliore dell'altro? Io credo di no. Sono modelli, suggerimenti: vanno bene per quel che serve, non hanno nulla di assoluto o di necessario. E' più utile il calcio o il ferro? E' più salutare il sonno o l'attività fisica? Se poste in assoluto, senza un raffronto pratico, sono domande cretine – non hanno senso. Il giusto sta nella maggior parte dei casi in un equilibrio tra diverse tendenze.
Allora quello che è importante, prima di scegliere un modello, è individuare la tendenza sulla quale dovrà essere calibrato. Se ho una carenza di ferro non mi “farà bene” bere più latte, ma piuttosto mangiare più carni rosse – il che non significa affatto che le carni rosse siano più salutari del latte. In tutte le cose, non esiste una ricetta universale concreta per il successo: solo una valutazione sempre perfettibile di complessi fattori può portare a lavorare su singoli risultati.
Tra cura perfezionista dei particolari (meglio non finire, che finire male) e sicurezza del risultato (finito è bene, e il meglio è nemico del bene), non esiste la formula giusta. E' chiaro che il lavoro perfetto è quello che si immagina fatto al meglio, corretto e curato in ogni particolare, portato a termine senza eccessivo sforzo, elegantemente e precisamente, in tempo utile, tutto completo e rifinito, in armonia con altri lavori con cui si debba eventualmente coordinare. Sì, ma al di sotto di questa iperuranica perfezione, che cosa si trova nel nostro mondo reale?
Quello che si trova è per ciascuno diverso, e ci sarà chi non ha problemi a finire, purché sia, e farà forse bene a spendere un poco di attenzione in più sulla cura del dettaglio; e chi fa dei lavori accuratissimi, ma in quantità insufficienti o con tempi inefficienti perché possano essere utili, e a questo converrà ricordare la massima, abbandonare un po' di pignoleria, e giungere al risultato.
Chi può dare le giuste indicazioni? Qualcuno che può aiutare si trova sempre, ma la sola persona dalla quale si può pretendere che arrivi a padroneggiare la situazione siamo sempre e solo noi stessi. Nessun capo, nessun maestro, nessun collaboratore potrà darci la misura giusta del nostro lavoro: questo spetta a noi.
Una volta scelto “che cosa” fare, allora ottimi supporti si possono trovare sul “come”. Se si vuole ridurre il tempo di lavoro, qualcuno può suggerirci dalla sua esperienza qualche trucco su come allenarsi. Se vogliamo incrementare la nostra accuratezza, idem.
Molto dipende anche da quale sia il nostro settore. Curiamo un lavoro d'èlite, oppure lavoriamo su pezzi in serie? Perché se sono il sarto che opera sull'Armani da consegnare alla regina Rania di Giordania per un galà, forse il livello di dettaglio che ci si aspetta da me è un po' più elevato rispetto a quello che ci si aspetta per l'applicazione di un francobollo su una busta.
Tarare le misure è la parte più ardua – e non si finisce mai di ricalibrare.

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